mattia darò architect - rome italy

Roma, 10 Dicembre 2005

Prof. Arch. Franco Purini


Caro professore,
le scrivo in relazione alla giornata di studi “Generazioni e Progetti Culturali”, da lei organizzato quale Direttore del Dipartimento di Architettura e Costruzione dell’Università “Valle Giulia” La Sapienza in data 06 dicembre. Purtroppo non sono riuscito ad intervenire direttamente durante la giornata, avendo potuto assistere solamente alla sessione della mattina, ma ritenendo la questione da lei posta importante e avendomi stimolato una mia riflessione (forse generazionale?), le allego alla presente il testo di quella che è
la mia posizione di architetto trentaduenne (quinto progetto culturale come lei asserisce).
Confidando nella sua attenzione, anche in relazione agli atti che andrà predisponendo, le invio
Cordiali saluti
Architetto Mattia Darò


I problemi dell’architettura italiana = problemi generazionali?
La classificazione di Purini mi pare acuta e calzante.
Mi riconosco nella mia generazione (la quinta – bellissima la definizione generazione Erasmus). Riconosco i colleghi negli altri progetti culturali relativi alle diverse generazioni. Ma non posso credere che i problemi dell’architettura italiana siano assimilabili a questioni generazionali.
Credo piuttosto che queste analisi siano molto interessanti per “fare il punto” ma siano come un affresco familiare e non corrispondano alla realtà.
Primo motivo perché mancano da questa analisi riflessioni economiche. Sono infatti convinto che se l’architettura italiana (ma anche la cultura) ha perso strada negli ultimi anni è perché ha rifiutato le ragioni del mercato, non comprendendone più regole e strategie d’azione e lasciando a “briganti” l’onere di “sporcarsi le mani” con questioni di “vile denaro”. Fare architettura significa investire soldi e nella società attuale è sempre più importante trovare gli strumenti per farlo senza dimenticare la qualità. Problema che non solo riguarda il mondo della cultura ma riguarda anche la nostra classe politica che non ha favorito una industrializzazione della cultura, preferendone l’apparenza o meglio provinciali tentativi di creare similitudini esterofile.
Secondo motivo: di certo il territorio italiano non ha agevolato una cultura dell’architettura in senso moderno. Causa sempre un’industrializzazione debole, l’architettura italiana non ha potuto sperimentarsi più di tanto e quindi non si è creata neanche una scuola di architetti moderni, in Italia mi paiono tutti più degli studiosi a cui talvolta capita di avere una concreta occasione realizzativa. E infatti non è un caso che Fuksas e Piano sono architetti che hanno costruito la loro fortuna all’estero. Spesso quindi gli architetti migliori si sono trovati frustrati nelle loro velleità realizzative mantenendo però una loro personalità culturale forte e motivata. L’università è stata lo sbocco di moltissimi. Se l’Italia non si trova difatti in condizioni agevoli per dar modo ai suoi architetti di far esperienza professionale – i vari Botta, Herzog & De Meuron, Holl, Koolhaas hanno tutti avuto modo di sperimentarsi, di verificare nel reale le loro poetiche e di instaurare sodalizi professionali attraverso i propri incarichi – da noi mi pare che ogni incarico si sia rivelato più come una occasione da non perdere che come una consecutio di lavoro. Questa condizione, difficile da accettare, non è a mio avviso senza speranza. Difatti il ruolo culturale dell’Italia, oggi in affanno, è certamente nevralgico. Perché il nostro territorio è un territorio unico in ambito artistico e perché non voglio credere che non esiste un’intelligenza specificatamente italiana. E l’università, oggi sempre più, è il motore della cultura nel nostro paese anche se sempre più è messa in difficoltà da esigue finanziarie.
Ecco, io credo che il problema espresso da Purini tramite le 5 generazioni, riguardi più l’ambito culturale (difatti parla di progetti culturali) che l’architettura realizzata, sulla quale scontiamo un gap storico difficile da colmare (rivoluzione industriale). L’Italia nel mondo ha un compito direi unico, la capacità di gestire un patrimonio universale che tutti ci invidiano e vogliono vedere. La sua scommessa con la modernità è questa. Un compito direi che impone riflessione nelle scelte sulla politica delle città e sul modo di viverle. E’ vero che necessitiamo di una identità forte più che di altri paesi, che possono permettersi il lusso di sperimentare ancora o che hanno scelto il cambiamento come propria identità, ma il progetto deve essere serio. L’architetto ha un ruolo civile che si è perso in cambio di tentativi abbastanza vani di cercare fortunosi incarichi in concorsi, con il miraggio di esprimere proprie capacità espressive. Il progetto culturale io credo vada strutturato meglio. Sono d’accordo con Purini quando lamenta la distanza che accompagna i tanti nostri (generazionalmente parlando) progetti importati da culture che li hanno realmente inventati (le simulazioni olandesi in italia, per intendersi) ma viceversa a mio avvio il problema italiano non può più essere locale, ovvero la progettazione delle nostre città e del nostro territorio è un problema che riguarda il mondo e non solo di noi che ci abitiamo. Il fenomeno del turismo lo dimostra tutti i giorni. L’Italia ha il dovere di confrontarsi con il mondo perché più di altre nazioni europee, il nostro paese è una nazione la cui conservazione è uno dei punti di maggior progresso della civiltà occidentale. Sembra un paradosso ma credo proprio che sia così.
Quest’attenzione al contesto deve quindi divenire strumento progettuale e culturale tale da produrre un’indotto economico e qualitativo per le nostre città. Proprio in nome di un discorso collettivo e rappresentativo, la cultura architettonica italiana ha senso se riferita al patrimonio delle sue città e allo studio di come coniugare esso con la modernità, per capire come essa dialoga con l’antico. Ciò chiaramente travalica un discorso sul linguaggio, materia strettamente legata all’insegnamento delle università. L’immagine delle nostre città è oggi strettamente connessa al suo tessuto storico e a oggi questo è il patrimonio su cui l’Italia ha il dovere e l’onore di stimolare l’attenzione del mondo.
Rimane il fatto che le nostre periferie necessitano di buona architettura e che il problema delle periferie è un problema globale più che particolare. Rispetto a questo, credo che le buone occasioni non mancano e vadano incentivate maggiormente ma credo anche che questa problematica riguarda una qualità diffusa e non l’architettura eccezionale, quella riservata ai grandi architetti che agiscono come artisti sul territorio.
Detto questo non credo quindi ci sia una sola posizione che corrisponde a verità. Credo piuttosto, e questa forse è una posizione che mi piacerebbe definire generazionale, che di verità buone e costruttive ce ne siano tante. Ma la mia generazione (forse non tutta), che ha annusato le ideologie ed ha subito dovuto uscirne fuori, facendo divenire questa necessità una condizione esistenziale, vede con disincanto quest’approccio teorico-ideologico per cui è la politica che stabilisce le regole del mercato. La vera scoperta è che è il mercato che tiene le regole della politica e chi le asseconda meglio vince, se di vittoria dobbiamo parlare.
Forse sono uscito un po’ dal tema: le culture generazionali. Ritengo però che il tema del conflitto tra generazioni, presentato da Purini, sia più un problema che riguardi il sistema universitario. Queste guerre fratricide non fanno bene, d’altronde evidenziano una crisi profonda della ricerca. L’università è in fondo una grande mamma che dà da vivere ma manca completamente di una strutturazione adeguata al suo prestigio. Proliferano le università ma mancano programmi efficaci che differenzino i programmi di studio. Se è vero che le ultime generazioni producono progetti culturali globali, devo dire che le facoltà fanno di tutto per incentivare questi progetti. Spesso i temi dei corsi sono legati all’interesse dei singoli e non decisi collegialmente o almeno inerenti un programma di ricerca specifico. Spesso gli studenti passano da un professore ad un altro sentendosi dire esattamente il contrario. Siamo in democrazia! Conseguenze inevitabili delle civiltà libere e complesse. Credo che le università necessitino una sempre maggior capacità di autorganizzazione e di vertici stretti liberi di decidere le linee di ricerca da perseguire per periodi temporali, compreso le assunzioni di professori e ricercatori (non in eterno) che assecondino queste linee decise così che l’università si liberi da questa assurdo criterio di scelta per valori assoluti che è assolutamente inadatto alla molteplicità e alla diversità, nuovi valori dell’era contemporanea.


Roma, 051205

Letter